“Lui riesce ad affermarsi con poca spesa, io mi sono fatto un mazzo così, ma lungi da me giudicare. Io amo tutti quelli che fanno questo lavoro a patto che non prendano per il culo il pubblico”.
“Quando ho iniziato io dovevano sgomberare le piste dei locali, non c’erano palcoscenici. Sfollavano la pista da ballo e io cantavo con solo un revox, nella mia nudità coperta di piume. Non giocavo a fare il clown della situazione, io cantavo le problematiche della periferia, della borgata della gente emarginata”.
Dalle pagine del Corriere della Sera Renato Zero, tra pochi giorni 70enne e con 3 dischi in uscita, ha così stroncato Achille Lauro, che in tanti hanno accostato a lui per il trasformismo a cui è andato incontro negli ultimi anni.
Parole pesanti, e fatemelo dire inutilmente ricche di astio. Perché paragonare l’oggi agli anni ’70 non ha alcun tipo di senso.
Perché da una parte c’è un uomo che all’epoca era avanti millenni rispetto al resto del Paese e che negli ultimi 30 anni ha praticamente rinnegato sè stesso, tramutandosi in una sorta di casta figura democristiana.
Dall’altra c’è un 30enne che in un’epoca in cui la mascolinità tossica ancora imperversa ovunque, ha osato reinventarsi, cambiare immagine e sfondare muri stracolmi di ipocrisia, misoginia e omofobia.
Zero dovrebbe essere orgoglioso, se qualcuno vede uno come Lauro ripercorrere i suoi irripetibili, iconici, indimenticabili e strepitosi passi.
E nient’altro.