Facebook censura l’omofobo Mario Adinolfi ma dura solo 24 ore: lettera aperta

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Prima le lacrime su Twitter, gnè gnè, poi l’esultanza dopo 24 ore di ‘paura’.
Nel mezzo l’omofobia gratuita e diffamante che vince, ancora una volta.
Per questo copio/incollo la splendida lettera scritta da Ilaria Mainardi a Mario Adinolfi, lunga ma ricca di verità. Tanto da consigliarvi una sua accurata lettura, con inevitabile diffusione.

Scriviamo in merito alla pagina facebook “Voglio la mamma”, ispirata all’omonimo libro di Mario Adinolfi e dallo stesso giornalista romano curata. La prima domanda, di natura, diciamo, operativa, alla quale ci piacerebbe avere una risposta è: perché Adinolfi, personaggio abbastanza conosciuto e con già diversi tomi all’attivo, è ricorso, in questo caso, all’autopubblicazione? Non abbiamo nulla, sia chiaro, contro questo sistema di pubblicazione che riteniamo degnissimo e utile per far circolare temi e idee. Molti di noi lo hanno utilizzato con soddisfazione o lo utilizzeranno. Tuttavia, per esperienza, raramente (sì, ci sono sempre le eccezioni) un giornalista affermato, per di più nella tradizionalissima Italia, vi ricorre. Possiamo supporre, con un po’ di malcelata malizia, che nessun editore abbia voluto apporre il proprio sigillo sulle affermazioni, assai discutibili nello stile e nel merito, di Adinolfi?

Una querelle tutto sommato di poco conto, direte voi: nulla di illecito, anzi, nulla di male. Perdonateci dunque se siamo voluti partire da lì. Se avrete la pazienza di leggere fino in fondo questa lettera come noi abbiamo fatto, non senza fatica, con il testo di Adinolfi, capirete perché il gioco delle tre carte linguistico (editoria e autopubblicazione sono esattamente la stessa cosa? Concettualmente no per mancanza di un intermediario, praticamente può darsi, ma se ne discute ancora, negli ambienti letterari) sia il vero problema di questo testo e, probabilmente, di tutta la nostra società liquida, quasi squagliata sotto il sole del perbenismo di facciata.

Il sottotitolo di “Voglio la mamma” è “da sinistra, contro i falsi miti di progresso”. Interessante. A ritroso, ovvero dopo la lettura del libro, ci domandiamo da dove provenga il desiderio di specificare l’appartenenza politica, dicendo tra l’altro una falsità, dato che le idee propagandate da Adinolfi ricordano, ovviamente senza quel carico di violenta repressione, più quelle del Primo Ministro ugandese, Amama Mbabazi, che quelle di qualunque sinistra, anche addolcita, del terzo millennio. Del resto le origini politiche del giornalista, rispettabilissime, ma parlanti, come ogni biografia, dicono più di qualunque sottotitolo: “Politicamente ha militato prima nella Democrazia Cristiana e poi, con l’avvento del bipolarismo, nell’area centrista del centrosinistra. Nel 1993 è il più giovane membro dell’Assemblea costituente del Partito Popolare Italiano. Nel 1994 è eletto presidente nazionale dei Giovani popolari, poi diventa membro dell’esecutivo nazionale del PPI. (fonte wikipedia)”. Ebbene, centro non è sinistra, Democrazia Cristiana non è sinistra.

La premessa la butta sulla retorica un po’ spiccia, con la chiosa su un immancabile (da lassù ci perdoni) De André. Certa politica ce lo ha insegnato in modo paradigmatico: se catturi la pancia dell’elettorato, non hai bisogno di convincere la testa. Ciò vale soprattutto su temi che agitano la coscienza di un certo numero di persone, fra cui Adinolfi, impegnato, contro ogni logica, a riversare fuori di sé un disagio che, in una società complessa come la nostra, dovrebbe essere prima di tutto riferito a noi stessi, al nostro modo di vivere l’identità in relazione agli altri, alle nostre paure insensate, alle nostre troppe mancanze di uomini/donne, di cittadin*. Nel primo capitolo vero e proprio, la disamina si addentra, con tanto di spiegazioni etimologiche (peccato che l’etimo non sia un dato di natura, ma derivi da consuetudini che si spera il tempo possa ripensare, talvolta superare) sulla vexata quaestio: il matrimonio omosessuale.

Citando Luca di Tolve e Joseph Nicolosi (e non Nicolisi, come invece è scritto) in bibliografia, per caso Adinolfi si spinge a confutare i dettami dell’ordine degli psicologi sulle teorie riparative, ovvero una forma di coercizione psichica inaccettabile, atta a curare una non patologia? Speriamo di no, del resto Mario non è uno psicologo, ma uno storico, e sarebbe dunque bene che ciascuno ricominciasse a parlare di ciò che gli pertiene, per studi e/o competenze. A futura memoria, ci preme tuttavia riportare il parere, espresso dall’ex presidente dell’ordine, Palma, nel 2011: “L’intervista inizia con la richiesta di chiarimento circa la posizione del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) sull’omosessualità. Il Presidente precisa che l’omosessualità non è una malattia da curare: affermare il contrario è una informazione scientificamente sbagliata. Infatti, come stabilito dalla comunità scientifica internazionale, l’omosessualità non è una malattia ma, citando l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una “variante naturale del comportamento umano”; è peraltro ampiamente dimostrato che i tentativi di “conversione” dell’omosessualità in eterosessualità non solo falliscono, ma anche segnano, e spesso gravemente, le condizioni psichiche di chi vi si sottopone; Infine è una questione di semplice buon senso: perché “curare” ciò che non è malato? Su questi punti, il consenso della comunità scientifica italiana e internazionale è assoluto. (fonte http://spsis.wordpress.com/).

Bastano queste poche righe per confutare, sempre e per sempre, ogni possibile obiezione circa la bontà delle posizioni di gay e lesbiche, attivisti o meno, che chiedano il riconoscimento dei propri diritti (e doveri, perché il matrimonio ne implica e chi si sposa lo sa). La nostra costituzione, laica, recita testualmente: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Dal momento che l’omosessualità è una variante naturale del comportamento umano e non una malattia, non si vede perché gli omosessuali debbano essere considerati cittadini di serie B e venga loro tolto il diritto di accedere all’istituto, anch’esso laico, giacché “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, del matrimonio. Il resto sono libere opinioni. Anch’io preferisco il gelato alla stracciatella rispetto a quello al pistacchio. E allora? Legiferiamo sui miei gusti personali? Ci scrivo sopra un libro, pretendendo di bollare come indecenti tutti gli altri? Suvvia, ridicolo solo pensarlo.

Le cifre che Adinolfi riferisce sulla durata media dei rapporti omosessuali non vengono precisate né nel numero campione dal quale sono state estratte né nella tipologia di indagine che è stata fatta. Tuttavia, al netto di ciò che abbiamo riportato sopra, risultano irrilevanti. Se poi si guardano i dati Istat sul divorzio o le recenti e meno recenti vicende sanguinose all’interno di sacre famiglie eterosessuali, viene da ridere, se non ci fosse davvero da piangere o da, rispettosamente per le vittime, tacere: un mero, e un po’ scorretto, arrampicarsi sugli specchi. La pretesa del rispetto di un proprio diritto non è una presa di posizione ideologica, è ciò che prevedono le legislazioni dei paesi evoluti.

Si arriva dunque al capitolo, dedicato all’aborto. Adinolfi parla della propria vicenda personale, del tutto degna, ovviamente, ma non certo di valore assoluto per la scienza o per la legge di uno Stato. Non si capisce come si possa pretendere di dare al proprio lavoro una connotazione quasi scientifica su tali, labili basi. Come purtroppo spesso accade, l’aborto viene descritto alla stregua di una giornata di shopping da Zara. “Oh, che si fa oggi?” “Boh, si va ad abortire?”. “Ma sì, che sarà mai!”.

Adinolfi, adesso, è un consulente familiare. Sente, gli viene raccontato, attesta. Su quali dati? Nessuno, ovviamente. Si torna alla vecchia opinione personale della quale ce ne cale pochissimo, quando si tratta di legiferare su un argomento tanto delicato e già oggetto di speculazioni e pericolosi revisionismi. L’aborto volontario, atto estremo sul corpo della donna, costretta dall’obiezione, quella sì aberrante e disumana, a subire trattamenti umilianti e discriminatori, è un diritto intoccabile. Dare la vita è una responsabilità, non un diritto o tantomeno un dovere. Essere genitori una scelta libera e consapevole, non un capriccio o una toppa per la coppia in crisi. Consentire l’aborto, ripetiamo, atto estremo, doloroso, mai affrontato con spavalda leggerezza, si muove proprio in questa direzione.

Curioso poi che il paladino della vita in potenza – e quanta enfasi usa per descriverla – non sia altrettanto solerte e generoso per quella in atto. Cosa proponga Adinolfi, per limitare il ricorso all’aborto volontario, ci sfugge. La contraccezione è quasi un tabù, il sesso qualcosa che si iper-annusa ovunque, ma sul quale, per quel che riguarda la propria vita, vige il più stretto riserbo, l’educazione sessuale a scuola resta, il più delle volte, mera lezione anatomica senza che si ponga l’attenzione sulla necessità di una sessualità consapevole.

Il cattolicesimo ha colpe ataviche e fondamentali in questo stato di restaurazione senza rivoluzione. Oppure Adinolfi propone la castità? Per quanto riguarda l’aborto terapeutico, in caso di gravi malformazioni riscontrate per amniocentesi o villocentesi, preferiamo tacere, data la delicatezza del tema. Speculare su certe questioni ci disgusta. Si arriva poi al capitolo sull’omogenitorialità, con la quale vorremmo concludere questa nostra, già troppo lunga, lettera. La verità è che ci siamo un po’ stancati di confutare punto per punto questa specie di compendio del buon cittadino in salsa bigotto-ecumenica. Adinolfi ovviamente, stanti le premesse e ciò che ne segue, ritiene che, per essere genitori, si debba essere un uomo e una donna. Anche in questo caso usa l’arma della retorica, incavolandosi con l’utilizzo di genitore 1 e genitore 2 in luogo di mamma e papà. Chiunque di noi sia minimamente scolarizzato sa che, sotto la firma per le giustificazioni, in tempi non sospetti, campeggiava la scritta “firma del genitore” e non “firma della mamma o del papà”.

Abbandoniamo dunque la sterile retorica per addentraci nel vivo della questione. Adinolfi sostiene il primato biologico (a meno che poi non si dichiari creazionista, non lo vogliamo sapere). Essere genitori non equivale a essere in grado di procreare, come moltissime coppie adottive da sempre dimostrano, e la famiglia tradizionale può costituire un nucleo patogeno, come cronaca insegna. Due cellule che si fondono non dicono nulla sulla propensione e sulla volontà delle persone di essere genitori, ma, per essere più precisi, ci rivolgiamo ancora una volta alla comunità scientifica.

Questo infatti sostiene la American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (AACAP): “Non ci sono prove a sostegno della tesi per cui genitori con orientamento omo o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore-figlio, a confronto con orientamento eterosessuale. Da tempo è stato stabilito che l’orientamento omosessuale non è in alcun modo correlato a una patologia, e non ci sono basi su cui presumere che l’orientamento omosessuale di un genitore possa aumentare le probabilità o indurre un orientamento omosessuale nel figlio. Studi sugli esiti educativi di figli cresciuti da genitori omo o bisessuali, messi a confronto con genitori eterosessuali, non depongono per un maggior grado di instabilità nella relazione genitori-figli o disturbi evolutivi nei figli. L’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry si oppone a ogni tipo di discriminazione basata sull’orientamento sessuale per quanto concerne i diritti degli individui come genitori adottivi o affidatari. (fonte Lingiardi V., 2007, “Citizen Gay”, Il saggiatore)”. L’unico rischio per i bambini, affidati a coppie omogenitoriali o nati all’interno di precedenti relazioni di uno dei partner, è la discriminazione omofobica. Chiaro il concetto?

Ci vogliamo fermare qui, certi di avervi stancato abbastanza. Ci spiace non poter affrontare il capitolo sull’eutanasia, doloroso per chi sa cosa significa veder soffrire i propri cari, senza speranza e con il solo palliativo sollievo della morfina. Vogliamo dunque suggerirvi e suggerire ad Adinolfi, ammesso che ci legga, di guardare il film “Amour” dell’austriaco Haneke: in pochi hanno infatti saputo narrare con quella ferale dolcezza un tema così plumbeo, insopportabile. C’è tanta umana misericordia lì, quanta poca ne abbiamo trovata nel testo di Mario Adinolfi che, per quanto ci riguarda, può continuare a esprimersi, purché non inneggi a guerre sante o altre amenità, per così dire. La libertà di opinione finisce dove comincia l’invito alla violenza. E i liberticidi, in tal caso, non siamo certo noi“.

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