Premessa fondamentale.
Sono cresciuto a pane e Woody Allen.
Ho visto tutti i film di questo inimitabile genio del cinema americano, reso leggenda nel nostro Paese dalla voce di Oreste Lionello e prolifico come pochi altri registi al mondo.
Almeno un film all’anno da decenni, senza mai stancarsi e partorire opere a rullo continuo. Molti di queste mediocri, dimenticate, altre acclamate e premiate. Chi scrive, ad esempio, non si è mai strappato i capelli che non ho per Vicky Cristina Barcelona e Midnight in Paris, tra i più applauditi dell’ultimo ‘suo’ decennio, spellandomi invece la mani per il sottovalutato e straordinario Basta che funzioni. Dovendo poi sforzarmi, mi tocca andare al 2005, anno dell’inatteso e bellissimo Match Point, per ritrovare un suo ‘Capolavoro’.
Ebbene dal prossimo 5 dicembre potrò aggiornare questa speciale ‘classifica’ grazie a Blue Jasmine, straordinario film che ha già incassato 75 milioni di dollari in tutto il mondo.
Un’atipica commedia che improvvisamente diventa noir, segnata dalla crisi di questi anni e dall’obbligo di una certa classe sociale, quella dei più ricchi, nel dover ‘incontrare’ e imparare a convivere con quella dei più poveri, malinconica e brutale nel non sbandierare vincitori, ma solo e soltanto sconfitti.
Una pellicola letteralmente trascinata da una mastodontica Cate Blanchett, mai così brava in tanti anni di onorata e sfavillante carriera.
Una Blanchett elegante e maestosa, pazza e spaventosa, tradita e traditrice, subdola e ingenua, nei panni di una splendida donna viziata dal miliardario e filantropo marito. Fino a quando il mondo non le cade addosso. Perché lui non solo le mette le corna ma è anche un bastardo truffatore, tanto da finire in carcere e lasciare lei, Jasmine, senza un soldo in tasca. Senza una casa. Senza più amici. Senza un presente ma soprattutto per la prima volta senza un futuro, perché per troppi anni rinchiusa all’interno di un dorato sogno famigliare improvvisamente esploso. Costringendola di fatto a lasciare l’amata New York per San Francisco, dove ad accoglierla ci sarà la sorellastra rozza, bruttina e proletaria, interpretata dalla sempre troppo sottovalutata Sally Hawkins. Due mondi lontani che si incontrano, perché costretti a farlo.
Meryl Streep, Gena Rowland, Diane Keaton, Mia Farrow, Dianne Wiest. Allen ha lavorato negli anni con le più grandi di Hollywood, ma la prova di Cate in questa sua ultima fatica toglie il fiato.
Perché fragile, borderline, sfaccettata, umana. Una donna che ama, odia, disprezza e piange, dilaniata dai propri errori per anni nascosti sotto il costoso tappeto del salotto. Una Blanchett che cavalca per 90 minuti un film che spiazza, tra ciniche risate e colpi di scena finale, saltando continuamente tra passato e presente, tra ciò che la Jasmine del titolo era quando aveva i milioni e ciò che è ora senza più un dollaro, ma con Vodka e Xanax a farle giorno dopo giorno compagnia. In stato di grazia dal punto di vista della scrittura, Woody ha poi concluso il tutto con un tocco da maestro, assestando un duro colpo allo stomaco di tutti i suoi protagonisti e di chi osserva senza parole la deriva interiore dei vari personaggi. Blanchett in testa, intensa, emotivamente massacrata da una cocente impossibilità ad accettare il ‘diverso’ da lei, geneticamente snob e classista, e commovente, tanto da meritare un Premio Oscar come Migliore Attrice Protagonista che solo la Judi Dench di Philomena potrà provare a scipparle da sotto il naso.
Per Allen, invece, ci sarà quasi certamente la 16esima nomination nella categoria “miglior sceneggiatura originale” (record dei record), aggiornando di fatto il conteggio totale a 24 candidature nelle tre maggiori categorie (regia, sceneggiatura e recitazione, 4 le statuette vinte) che lo porterà ad allontanarsi sempre più da Billy Wilder, fermo a 19. Perché si possono avere 78 anni (il 1° dicembre) e continuare a sbalordire. Anche se arrivati al 45esimo film da regista in 47 anni.
Chapeau Woody.
E grazie di esistere.