Recensione in Anteprima
Uscita in Sala: 8 ottobre
114 milioni di dollari incassati in tutto il mondo nel 2006 con il primo capitolo, dopo esserne costati appena 12, 150 due anni dopo con l’ovvio e scontato sequel. A 4 anni dalla sua nascita Step Up torna al cinema con il 3° ‘episodio‘, diretto nuovamente da John M. Chu, regista di Step Up 2, e potenziato dalla ‘magia’ della terza dimensione. Senza dimenticare le storie d’amore, che tanta fortuna avevano portato ai primi due capitoli, Step Up 3D allarga i propri orizzonti, moltiplicando non solo la dimensionalità ma anche ballerini, balli e coreografie.
Indirizzato ad un pubblico ben preciso, che probabilmente se ne frega di una trama che abbia un minimo di senso e di dialoghi che non rasentino il patetico, Step Up 3D si fa vedere grazie ad un serie di strabilianti attori/danzatori e a notevolissimi numeri coreografici, a tratti impreziositi dall’esordio degli occhialetti, per una volta inglobati all’interno della storia, tra mani e piedi che a ritmo escono dallo schermo per andare incontro allo spettatore. Tralasciando battute da brivido, per quanto ridicole, product placement sfacciati e una trama praticamente inesistente, John M. Chu riesce comunque probabilmente a soddisfare il ‘proprio’ pubblico, dandogli in pasto numeri musicali a gogo, aspettando l’arrivo di Step Up 4, praticamente certo dopo i 140 milioni di dollari incassati worldwide…
Moose, ovvero lo studente della Maryland School of the Arts già visto in Step Up 2, sbarca a New York insieme alla sua amica d’infanzia Camille. Ad attenderlo c’è la facoltà di ingegneria, scelta per accontentare i genitori, mettendo così da parte la passione per la danza. Peccato che la Grande Mela sia un continuo terreno di ’scontro’ tra ‘gang’ rivali di ballo. Inserito all’interno di una di queste, Moose finisce in una sorta di ‘factory’ per ballerini da strada, gestita da Luke, danzatore e novello regista, pronta a competere per il titolo di “migliori hih-hoppari’ del mondo, in una sfida mozzafiato che cambierà per sempre le vite dei partecipanti…
Toccata con successo l’idea della ’sfida’ in Step Up 2, John Chu ha pensato bene di ripetersi anche con questo terzo capitolo, ma alzando la posta in palio, con tanto di ‘campionato mondiale’ da vincere a suon di balli. Peccato che per costruire la propria storia Chu si sia perso in uno script atroce, caratterizzato da personaggi tagliati con l’accetta, per quanto squadrati, e da un evolversi spesso insensato e decisamente poco credibile. Per quale motivo la ‘factory’ di ballerini da strada gestita da Luke, che l’aveva ereditata dai suoi genitori, che a loro volta l’avevano ristrutturata e tirata su dopo una vita di lavoro, è in mano alle banche? Perché Luke, pur di non perderla una volta per tutte, deve pagare ogni mese una rata ad hoc? E come vivono questi ‘artisti’ da strada, che non fanno altro che ballare da mattina a sera, se non hanno un lavoro o una famiglia che li sostiene? Come e quando si ‘trasforma’ il rapporto d’amicizia tra Moose e Camille? E infine, com’è possibile che in un riuscito numero finale una serie di ‘capi d’abbigliamento’ luminosi, a fine esibizione, risultino privi di qualsiasi led, in realtà teoricamente presenti? Questi sono solo alcuni dei quesiti disseminati da Chu e dagli sceneggiatori ai quali non viene mai data risposta, passando così da un dubbio all’altro senza farsi troppi problemi.
Per tappare le evidenti falle di scrittura, il regista, ex ballerino, si è così scatenato nei numeri da ballo. D’altronde cosa vuole vedere lo spettatore medio di Step Up? Balli, coreografie, ballerini, e Chu gliene da’ a volontà. Sostenuto da un corpo danzante veramente mostruoso, il regista si affida totalmente alla bravura di b-boys, tickers, tappers, voguers e poppers, dividendo il cast in vere e proprie ‘Houses’, con una decina di momenti ‘ballati’ che valgono sicuramente il prezzo del biglietto, se siete appassionati del genere. Se ovviamente non appartenete a questa categoria, indirizzate i vostri 8 euro verso altri lidi, prima che sia troppo tardi.
Tralasciato un incredibile spottone fatto ad un notissimo brand sportivo, che avrà come minimo co-prodotto la pellicola vista la sfacciataggine con cui viene più e più volte sbattuto in faccia allo spettatore, e sottolineando un lungo, complesso ed interessante piano sequenza danzante che vedo il piccolo ma bravissimo (nel ballo) Adam G. Savani omaggiare i musical degli anni 50 e 60, in una New York ad ostacoli dove poter ballare tra strade e marciapiedi, Step-Up 3D ha sì tutti i difetti dei predecessori, tra attori da film tv e dialoghi da bignami della retorica, con tanto di motto “credi in te stesso, perché se credi in te stesso potrai superare qualsiasi ostacolo che ti troverai davanti nella vita e potrai così realizzare anche i tuoi sogni” più e più volte ripetuto, ma anche quei pregi che solitamente vengono schifati dalla critica media, rimasta giustamente scioccata dagli evidenti difetti, ma apprezzati da chi ama questo tipo di film, tutto ballo e love story. Anche perché detto tra noi, e senza girarci troppo attorno, ‘nessuno può mettere Baby in un angolo‘ tutto è tranne che la quintessenza del dialogo fatto scrittura, eppure rimane ancora oggi una delle battute più conosciute della storia del cinema…
Voto: 5 (3 al film inteso come ‘opera cinematografica’, 7 al film in quanto ‘balliamo e fregiamocene di tutto il resto)