Mangia, prega, ama: Recensione in Anteprima

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Mangia, prega, ama
Recensione in Anteprima
Uscita in Sala

Ci sono voluti 4 anni affinché il libro di memorie di Elizabeth Gilbert, “Mangia, prega, ama“, 6 milioni di copie vendute solo negli States, arrivasse al cinema. A cavalcare la complessa operazione Ryan Murphy, geniale creatore televisivo di serie cult come Nip/Tuck e Glee, e già visto in sala dietro la macchina da presa del promettente ma discutibile Correndo con le Forbici in Mano. Al suo fianco, sin dal principio, Julia Roberts, indicata da subito come colei che avrebbe dovuto interpretare sul grande schermo Elizabeth Gilbert, ovvero la stessa autrice del libro. Partendo proprio dal titolo, che in qualche modo etichetta immediatamente le tre tappe che la protagonista andrà a vivere sulla propria pelle per ritrovate se stessa, si intuisce quanto il film sia un concentrato abominevole di luoghi comuni.

In Italia, terra del ‘dolce far niente’, per godersi la vita, vivere la giornata, filosofeggiare con gli amici e abbuffarsi da mattina a sera; in India per trovare quiete, il potere della pace interiore; in Indonesia, a Bali, per raggiungere l’equilibrio, spirituale e non, senza dimenticare l’amore. Un anno sabbatico, in giro per il mondo, zaino in spalla, valigia Vuitton subito dietro, soldi a profusione, da donna ricca, maledettamente e fastidiosamente borghese, sposata con un uomo immaturo che però ti adora, con amici da Mulino Bianco e un lavoro che ti piace, ti soddisfa e ti permettere una vita agiata e piena di ogni confort, ma con una profonda e misteriosa infelicità che ti avvelena, ti pugnala alle spalle, chiedendo aiuto. Partendo da questo “semplice” intreccio, realmente vissuto da Elizabeth Gilbert, Murphy si perde purtroppo all’interno di uno script, scritto con Jennifer Salt, discutibile nella rappresentazione delle realtà prese in esame, a partire da una visione dell’Italia sinceramente ridicola, per non dire imbarazzante, per non dire fantascientifica, ovvero semplicemente hollywoodiana.

Elizabeth è distrutta e depressa da un doloroso, quanto recente, divorzio. Aveva tutto quello che ogni donna potrebbe desiderare, eppure non è felice. Decide così di compiere un viaggio intorno al mondo per ritrovare sè stessa, un viaggio sognato per una vita intera, ma sempre rimandato per via di un’esistenza perennemente programmata, frenetica e incentrata a soddisfare gli altri, prima che se stessi. L’anno di ‘pausa’ inizia facendo sosta a Roma, per godere delle gioie della buona tavola, per poi volare in India, dove riscoprire la propria spiritualità, ed infine concludersi a Bali, dove un nuovo amore la farà semplicemente rinascere.

Finto, falso, eccessivo. Tutto o quasi in Mangia, Prega, Ama puzza di stereotipato. Dalla fotografia inspiegabilmente patinata, con volti, oggetti e superfici di ogni tipo perennemente illuminati a giorno da un’aurea paradisiaca che rende tutto etereo, alla crisi esistenziale della protagonista, nata non si sa come e non si sa perché, passando per le tappe della ‘Via Crucis’ salvifica che dovrà farla risorgere più forte e luminosa di prima, fino al momento della redenzione e dell’equilibrio interiore finalmente trovato, in una Bali da cartolina con letti a baldacchino immersi nella natura pura e incontaminata.

Eat, Pray, Love, dispiace dirlo, è un prodotto tipicamente americano. Negativamente parlando, purtroppo. Murphy e la Salt, co-sceneggiatori, sono infatti riusciti a rendere il libro di memorie della Gilbert ancora più stucchevole, mistico e affogato nei cliché di quanto già di suo non fosse. L’apoteosi dell’assurdo viene toccato con l’incredibile prima parte, quella che porta una Elisabeth distrutta in Italia, a Roma. Accolta in una casa del centro storico da un’anziana signora del Sud Italia uscita da un film di Vittorio De Sica, la protagonista si ritrova a dover scaldare l’acqua nelle pentole per farsi un normalissimo bagno, considerando che manca lo scaldabagno, neanche stessimo nella Roma del dopoguerra. Ambientato ai giorni nostri, il film prosegue la sua discesa vertiginosa nell’incredulità incorniciando un popolo, quello italiano, come un popolo di ‘fancazzisti’. Luca Argentero, testualmente, ammette ad una basita e spaesata Julia Roberts che Roma è la città del ‘dolce far niente’, dove tutti vivono alla giornata, senza far nulla, perché ‘non ci piace fare niente’, se non mangiare, divertirsi e fare sesso. Appresa tale ‘verità’, da romano posso dire con tutta tranquillità che sarei orgoglioso di poter condurre una vita simile, se non fosse che esista solo e soltanto nella ricca penna della Gilbert, addirittura calcata e caricata dall’occhio di Murphy. Cibo, famiglia e calcio. Questa è l’Italia vista dagli States, dove nessuno si preoccupa di lavorare, dove tutti sorridono felici e gesticolano ossessivamente, passando intere giornate a tavola, come i soldi piovessero dal cielo, giustificando tale nullafacenza.

Conclusa l’epopea capitolina, con tanto di ‘insegnante di latino’, la splendida Roberts vola prima in India e poi in Indonesia, senza scendere mai un secondo dall’ottovolante del luogo comune, anche se mai cavalcato con forza come capitato nella città eterna. Avventurandosi in dialoghi che oscillano tra l’introspettivo spinto e filosofeggiante e il misticismo bignamistico, Murphy si conferma, registicamente parlando, qualitativamente interessante, con una visione d’insieme mai banale e spesso intrigante, rovinata però da una storia forzata, utopistica e sinceramente poco credibile, anche se teoricamente realmente accaduta, sofismi e aggiunte cinematografiche a parte.

Tutto, ovviamente, poggia sul sorriso unico ed inimitabile di Julia Roberts. Solare, pensierosa, affranta, innamorata, disperata, allegra, affamata, meditativa. Sono tanti i volti dell’attrice ripresi e portati con forza e sforzo sul grande schermo, illuminato dalla sua bravura e dal suo ipnotico sguardo, affiancata da un ’saggio’ Richard Jenkins, a cui spetta un riuscito e complicato monologo, da un amabile Javier Bardem, un affascinante James Franco e dal nostro Luca Argentero, in meno di 10 anni passato con meritata soddisfazione dal Grande Fratello alle mega produzioni americane. Scenograficamente ‘edulcorato’, ben musicato dal nostro Dario Marinelli, fastidiosamente fotografato da Robert Richardson, tecnicamente ben diretto, a parte un paio di campi-controcampi finali sbagliati, debolmente scritto, malamente pensato e realizzato, ed incredibilmente lungo (140 minuti sono una follia) Mangia, prega, ama delude sotto più punti di vista, confermando due verità assolute sull’attuale industria hollywoodiana: ha ancora bisogno di Julia Roberts; che la smetta di rappresentare un’Italia da cartolina rimasta alle Vacanze Romane di hepburniana memoria. Non se ne può davvero più.

Voto: 5 —

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