Motel Woodstock
Recensione in Anteprima
Postata DA ME anche qui
Uscita in sala: 9 ottobre
3 giorni di musica, pace, sesso e amore. 3 giorni passati alla storia. 3 giorni, dal 15 agosto al 18 agosto del 1969, che videro arrivare a White Lake, nello stato di New York, oltre 500,000 giovani da tutti gli Stati Uniti d’America, facendo diventare il concerto di Woodstock semplice leggenda. Tutto questo non interessa ad Ang Lee. Motel Woodstock, infatti, non è una pellicola sul concerto rock più famoso e celebrato di tutti i tempi, ma sulle incredibili traversie che lo portarono a compimento e soprattutto sui cambiamenti epocali che portò all’interno della famiglia Tiber, che ebbe un ruolo fondamentale nella sua realizzazione.
Tratto dall’omonima autobiografia di Elliot Tiber, Motel Woodstock ci porta in un tempo che fu, dove tutto sembrava possibile, segnato dalla guerra in Vietnam e da generazioni di ragazzi che credevano in un sogno, in un ideale, urlando al mondo “peace and love”, attraverso un trip di colori, di musica, di sorrisi, di ricordi, di emozioni, splendidamente condensati dal solito maniacale e poetico tocco del regista taiwanese, tornato con gioia a toccare con mano le corde di un’atipica e riuscita commedia generazionale.
E’ il 28 agosto del 1963 quando Martin Luther King Jr. pronuncia il suo celebre discorso “I Have a Dream”. 5 anni dopo, il 4 aprile del 1968, King viene ucciso. Un mese prima ha luogo il massacro di My Lai in Vietnam. Un mese dopo viene assassinato Robert F. Kennedy. Il 27/28 giugno esplodono a New York gli Stonewall Riots, che segnano l’inizio del Movimento di Liberzione degli omosessuali. Il 14 luglio del 1969 a Michael Lang e ai suoi collaboratori vengono negati i permessi per organizzare un festival musicale a Wallkill. Il giorno dopo, un ragazzo di nome Elliot Tiber viene a conoscenza di questa notizia. Lui e la sua famiglia gestiscono un motel fatiscente e in fallimento a White Lake, nello stato di New York. Qui, da anni, Elliot organizza una sorta di Festival musicale di musica classica, che raduna poche decine di persone. Ha già i permessi per poterlo ripetere anche quell’estate. L’occasione è troppo ghiotta, visto che nessuno stato d’America sembra voler concedere i permessi a Michael Lang per il suo concerto di fricchettoni. Elliot prende così la palla al balzo, propone a Lang il suo motel come base principale del Festival e i terreni vicini come possibile aerea per il concerto,contribuendo inconsapevolmente a fare la storia…
Nacque così, tra l’incredulità generale dei presenti, il più grande e celebre concerto di sempre. Oltre un milione e mezzo di ragazzi si incamminarono verso il motel di Elliot Tiber e la sua famiglia, che mai fu più come prima dopo il ciclone Woodstock. Proprio a questa rivoluzione, familiare e personale, orienta il proprio interesse Ang Lee, che porta così in sala i cambiamenti epocali che videro protagonisti Jake, Sonia Teichberg e loro figlio Elliot. Woodstock non riuscì a cambiare il mondo ma sicuramente contribuì a cambiare l’esistenza di questi due genitori, così differenti e così innamorati, e del loro figlio, così timido, chiuso e trattenuto, tanto da non riuscire a vivere appieno la propria omosessualità.
Da figlio succube Elliot si trasformerà finalmente in uomo, padrone della propria vita, crescendo e maturando proprio in quei giorni che videro il proprio scalcinato motel trasformarsi nel più grande punto di ritrovo hippie di sempre. Lo scopo di Lee era quello di collocare una storia di trasformazione umana in un contesto di trasformazione culturale. Uno scopo raggiunto appieno, grazie ad uno script, scritto dal fido James Schamus, che oscilla continuamente tra le corde dell’ironia e quelle dell’emotività, ricostruendo perfettamente quegli storici giorni.
Pazzesco, infatti, il lavoro fatto dal punto di vista scenografico, per non parlare dei costumi e delle centinaia di comparse utilizzate per le riuscite e convincenti scene di massa. Lee, dal punto di vista registico, spazia sapientemente tra continui split screen di palmiana memoria e cambi di formato, con una fotografia, diretta da Eric Gautier, pronta ad evolversi minuto dopo minuto, passando dai colori ‘vintage’ a quelli ‘psichedelici’, fino allo strizzare l’occhio ai reperti originali dell’epoca (in realtà mai utilizzati), portarti sul grande schermo nel 1970 da Michael Wadleigh (e da un certo Martin Scorsese) con lo strepitoso documentario (Premio Oscar) Woodstock.
Ad aiutare Lee nella complicata riuscita della pellicola, un cast di attori magnificamente calatosi nella parte. Su tutti la superba, divertente e magistrale Imelda Staunton, nei panni della burbera madre di Elliot (a mio avvido da possibile candidatura all’Oscar), Sonia, affiancata dall’esordiente Demetri Martin, perfetto nei panni del timido e chiuso figlio che fa di tutto per aiutare i propri genitori, anche se questi non troppo affettuosi nei suoi riguardi. A completare il quadro familiare il malato, taciturno padre di famiglia, e innamorato della propria moglie, interpretato da un trasformato Henry Goodman.
A loro 3, veri protagonisti della pellicola, si affiancano il solito bravissimo Emile Hirsch, nei panni di un veterano di guerra tornato dal Vietnam, un angelico quanto trasgressivo, provocante e bellissimo Jonathan Groff e un inedito Liev Schreiber, nei vestiti di un travestito ex-marine che diventa il responsabile della sicurezza del Motel. Un personaggio, il suo, tanto realmente esistito quanto fondamentale per l’accettazione sessuale di Elliot, visto che sarà proprio Liev/Vilma a fargli capire che deve vivere la propria vita, portandolo di conseguenza ad incoraggiare i genitiri a vivere la loro.
Senza vedere mai neanche un secondo di concerto, a parte un bellissimo ‘trip’ finale che si abbatte come uno tsunami di colori, musica e amore sul palco, Ang Lee riesce perfettamente nell’impresa di farci ‘calare’ nell’atmosfera unica e probabilmente inimitabile di quel tempo che fu e che nessuno dei partecipanti realmente e completamente ricorda, perchè chi dice il contrario, probabilmente, a Woodstock non c’è davvero mai stato…
Voto: 7