Nel Paese che continua a proclamare la legge uguale per tutti, dopo il voto di ieri e in attesa urgente di quello del Senato il Cavaliere si avvia a diventare “più uguale” dei suoi concittadini, sottraendo l’imputato Berlusconi al suo legittimo giudice che lo sta processando per reati comuni, per nulla legati all’attività politica. Per fare questo, l’imputato ha dovuto chiedere soccorso al premier Berlusconi, che non ha esitato a usare fino in fondo il potere esecutivo per imporre al legislativo una norma capace di bloccare il giudiziario. Anzi, di più. Finché non è stato sicuro dell’approvazione del “lodo”, predisposto dal ministro-ombra della Giustizia Alfano (il vero Guardasigilli è l’avvocato del Cavaliere, Ghedini), il premier ha mandato avanti come norma d’urgenza un emendamento che fermava 100 mila procedimenti giudiziari pur di arrestare il suo. Ieri, avuta la sicurezza che l’immunità diventerà subito legge, Berlusconi ha acconsentito a disfare la norma blocca-processi, dimostrando così platealmente che la norma non aveva alcuna urgenza reale ma era solo strumentale alla sua difesa, in una combinazione legislativa meccanica che piegava due volte la procedura penale e l’uguaglianza dei cittadini per costruire un salvacondotto personale su misura ad un imputato eccellente.
Qui sta l’imbarazzo della democrazia italiana, in questa concatenazione tra l’interesse privato e la legislazione pubblica, che forma un abuso, deforma l’imparzialità della giurisdizione, trasforma la separazione dei poteri. Le tre funzioni (legiferare, amministrare, rendere giustizia) nello Stato moderno sono affidate a organi distinti in posizione di reciproca indipendenza e autonomia proprio per garantire che anche l’esercizio delle attività sovrane è sottoposto al diritto. Montesquieu ha spiegato una volta per sempre che “tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i comandi e giudicasse delle infrazioni”. Ma che accade quando il medesimo uomo fa le leggi, ne esegue i comandi e così fa in modo che nessuno possa giudicare delle sue infrazioni? Quanto è “perduto” in questo uso abusivo del potere?
Naturalmente questo ragionamento viene evitato dai costruttori del nuovo senso comune berlusconiano. Si prescinde dai fatti (un’ipotesi di reato, un’inchiesta, un processo, e la corsa politica a bloccarne l’esito) e si preferisce ragionare in termini generali: qui – si dice – non si discute di Berlusconi, ma di un sistema di guarentigie, che esiste anche altrove e riguarda le quattro principali cariche della Repubblica. Con ogni evidenza è una mistificazione. A parte il fatto che l’immunità del Capo del governo non esiste nelle democrazie europee, si può discutere in astratto di immunità se e in quanto serva a disegnare un sistema generale di garanzie, non quando urga la necessità di sottrarre un imputato al suo giudizio, strappandolo all’aula del Tribunale che sta per concludere il processo.
Questo anzi è il caso in cui la garanzia si trasforma in privilegio, e l’immunità studiata dalla dottrina costituzionale in considerazione della funzione pubblica e della sua tutela – nell’interesse non già del singolo, ma della collettività -, si riduce a impunità costruita nell’interesse esclusivo non di una carica ma di una persona, che con un vantaggio improprio viene sottratta ad oneri e responsabilità che valgono per tutti gli altri cittadini.
Qui sta tutta l’eccezionalità (uso la parola in senso tecnico) di ciò che sta accadendo in un parlamento ridotto a collegio di difesa di un imputato di corruzione, costretto a votare leggi speciali a sua tutela, impegnato a costruire un regime esclusivo di salvaguardia per un leader a cui non basta la politica, il trionfo elettorale, la forza della maggioranza, la dignità della funzione che ricopre nel nostro Stato. Sul piano culturale, c’è qualcosa di più. Una forzatura nella costituzione materiale del Paese, nella struttura politica del sistema, per cui da questo eccesso d’autorità scaturirà una nuova concezione dello Stato, con la supremazia del Leader che ha vinto le elezioni e per questo è intoccabile perché è un tutt’uno con la volontà dei cittadini, in un’unione sacra al punto che nessuna legge, nessun diritto, nessun potere può intervenire a sindacarla. Attraverso questa concezione, il leader legittimo del Paese diventa sovrano di fatto, perché si appropria di una sovranità che per Costituzione appartiene al popolo: non “emana” dal popolo verso qualche potere come oggi si vuole far credere e come pretende la teoria del moderno populismo, ma nel popolo risiede perché è il popolo che la esercita, “come contrassegno ineliminabile – si disse nella discussione in Costituente – del regime democratico”.
Questa è la posta in palio negli eventi a cui stiamo assistendo, nonostante la riduzione interessata a stanca contesa tra politica e magistratura, nonostante la banalizzazione accurata della sostanza politica, istituzionale e costituzionale di questa vicenda: non per caso immersa in un grande pettegolezzo sessuale su presunte intercettazioni in parte già distrutte dai magistrati e in parte prossime alla distruzione e tuttavia evocate e sceneggiate senza posa dai costruttori del paesaggio politico berlusconiano, secondo la modernissima strategia feticista che – come spiega la psicanalista Louise J. Kaplan – “mette in rilievo un dettaglio particolare per poter distrarre l’attenzione da altre caratteristiche considerate inquietanti”, “per immobilizzare e ammutolire, vincolare e dominare”.
Proprio per questo, a mio parere, è importante e significativo che migliaia di persone abbiano sentito il bisogno martedì scorso di uscire dalla solitudine repubblicana in cui viviamo per andare nella piazza di Roma dov’era annunciata una manifestazione di testimonianza e di protesta per le leggi ad personam predisposte dalla destra berlusconiana. Nella nuova egemonia culturale che domina l’Italia e che mette l’azione e le decisioni del governo al primo posto, trasformando la legittimità in nuova sovranità, e chiedendo alla legalità di non intralciarla, la vera domanda è se c’è una capacità di reazione liberale e democratica, costituzionale e repubblicana. Quella piazza, fatta di cittadini sconosciuti che hanno voluto riconnettersi al discorso pubblico in un momento delicato (e in molti casi hanno dovuto farlo da soli, senza il tradizionale canale dei partiti) è appunto un principio di reazione.
Ma alla domanda tutta politica – finalmente – che veniva dai cittadini in piazza (e dai molti altri che non hanno partecipato per molte ragioni, ma anche perché non si riconoscevano nelle forme, nei modi e nel programma dell’organizzazione) è stata servita una risposta di segno opposto, tutta impolitica. Anzi, antipolitica. Con un crescendo da “Corrida” che mescolava denunce planetarie e racconti da Calandrino sul Cavaliere, accuse a Napolitano (come se fossero le istituzioni di garanzia il vero problema del Paese), e al Pd come principale nemico, secondo la tradizione consolidata della peggior sinistra, per cui il vero avversario è il tuo compagno. Attraverso questo meccanismo che ha sostituito gli “idoli” dello spettacolo ai leader, trasformando il loro linguaggio in discorso politico e riducendo i cittadini a spettatori che applaudono, si è rotta la cornice istituzionalmente drammatica in cui si sta compiendo la prova di forza di Berlusconi. Anzi, si è persa l'”eccezionalità” di quanto la nuova destra berlusconiana sta facendo, l’unicità di questo passaggio, smarrito nella denuncia antipolitica grillina che urlando vuole tutti uguali: dunque Berlusconi è come gli altri e tutti insieme sono “un comitato d’affari”, col risultato che lo show convince il cittadino della sua impotenza, lo depriva della sua scelta di partecipare, depotenzia la sua reazione di ogni qualità politica, infine lo restituisce al privato con la convinzione che ogni azione pubblica collettiva è impossibile, peggio, inutile. Salvo battere le mani all’idolo che urla a vuoto, contro tutti e nessuno.
Si possono recuperare le ragioni che hanno portato quei cittadini in piazza, provando a dar loro un indirizzo politico, un percorso democratico, uno sbocco possibile? Molti “girotondi” hanno capito i limiti dell’antipolitica, che probabilmente ha consumato qui la sua stagione. Il Pd dovrebbe aver compreso che il vuoto della politica, anche lui genera mostri, e bisogna costruire un orizzonte riformista che sappia mobilitare e rispondere, dando radicalità ai valori e ai diritti, soprattutto quando sono sotto attacco. La sinistra sparsa, il centro cattolico, i moderati che non accettano il passaggio di sovranità hanno a disposizione un’idea semplice e necessaria: la democrazia come idea comune, nell’Italia sfortunata del 2008.